“La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima” (Elie Wiesel)

“Secondo i magistrati l’accusa di tentato omicidio non intaccava il diritto del 40enne di vedere e crescere il figlio.”
Riportano questo, i giornali, parlando dell’omicidio del piccolo di Varese.
Affronto ormai quotidianamente questioni che sembrano voler trovare compromessi tra l’essere un uomo violento, ma al contempo un buon padre di famiglia. E dopo il lungo elenco di femminicidi di questo anno appena passato, la frustrazione cresce ancora ed ancora.  Talvolta monta in rabbia, talvolta si trasforma in energia che tenta ancora una volta di individuare nuovi strumenti per poter costruire un dialogo tra avvocati, magistratura e con operatori socio- sanitari che spesso fanno prevalere, o almeno così pare, il diritto di visita del padre sul pregiudizio per il bambino e per la madre. 

Il diritto del bambino ad essere protetto da un padre violento troppo spesso è subordinato al diritto alla bigenitorialità. “È importante che il bambino faccia i conti col padre reale piuttosto che costruirsi fantasie che possano motivare la sua assenza”. 
Come non concordare con tale assunto? Questo però spesso motiva il protrarsi di incontri protetti per anni…
E penso a quei bambini, alla fatica emotiva di incontrare, in presenza di operatori spesso estranei, quel padre che troppe volte ha usato violenza contro la madre. Se poi questo padre non solo non riconosce di aver usato violenza, ma continua, nel tempo, a sottrarsi alla responsabilità di quei comportamenti giustificandosi, attribuendo colpe ad altri, ha davvero diritto a vedere/crescere suo figlio?
Sicuramente ha diritto a ricevere aiuto, anche solo nel tentare di costruire un percorso di consapevolezza. Ha diritto ad una possibilità di sostegno che lo orienti verso un percorso che, se ci sono le condizioni, lo porti a chiedere perdono alla madre e al figlio per le violenze agìte. Finché però non ci sono questi elementi, reali e validati e non solo dichiarati per avere sconti di pena, le donne e i bambini vanno solo protetti.

La cultura patriarcale ancora dominante in tutti gli ambiti della nostra vita si insinua anche laddove vi è violenza esasperata, gravissima come un infanticidio o un femminicidio per tentare di trovare giustificazione anche a quegli atti estremi. 
Quante altre vittime dovremo contare perché il diritto di madri e bambini sia più rilevante del diritto del padre violento?

L’unico dato rassicurante dei nostri tempi, dai nostri osservatori, è una maggiore emersione della violenza in donne giovani. Fa sperare che i percorsi di sensibilizzazione nelle scuole o forse, in generale, una più diffusa trattazione della violenza di genere spinga queste ragazze ad allontanarsi da relazioni abusanti senza aspettare anni, come accadeva in passato e come accade per tante ancora oggi. 
La strada per la consapevolezza è però ancora lunga, e questo vale per le vittime, per i carnefici e anche per gli addetti ai lavori.
In un sistema che continua a tenere separati procedimenti civili (separazione/divorzi/affidamento dei figli) da quelli penali (per il maltrattamento in famiglia) e che quindi alimenta la possibilità che la violenza possa essere considerata “a parte” rispetto all’essere buoni genitori. 

Occorre partire continuamente da noi stessi, come donne e come uomini che non hanno paura di chiamare le cose col loro nome e di fare i conti con un sistema estremamente complesso che ci chiede contemporaneamente di sostenere le vittime e di valutare le capacità genitoriali di entrambi i genitori, trattando in modo neutrale vittima e carnefice. 

I princìpi su cui si fonda il trattato di Instanbul dovrebbero guidarci sempre, nelle azioni da mettere in campo in questo sistema. Ognuno per la sua parte. 

La violenza non è conflitto. Ad esempio.

La violenza non può mai essere giustificata. Ad esempio.

La violenza non è mediabile. Ad esempio.

La violenza in famiglia è figlia della cultura patriarcale. Ad esempio.

La responsabilità della violenza è esclusivamente di chi la agisce. Ad esempio.

“La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima” (Elie Wiesel)

Occorre quindi prendere posizione come servizi sociali in questo sistema che spesso ci disorienta, che ci porta a mischiare la violenza con il conflitto, che ci chiede di essere neutrali anche a fronte di palesi ingiustizie.
Formazione costante, supervisione e costruzione di tavoli interistituzionali sono strade possibili e da percorrere.
Per aiutarsi a vedere e riconoscere la violenza, per poterla trattare con competenza, per sperimentare il coraggio di contrastare una cultura che ancora troppo spesso la giustifica.

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Immagine in copertina:
Spettacolo Running for Democracy Teatro Arena del Sole, Bologna 21/12/2021

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