Quando accadono fatti come quello accaduto in provincia di Varese qualche giorno fa in cui un padre, all’interno del conflitto con la ex moglie, uccide l’amato figlio “per punirla”, torna forte una domanda: di chi sono i bambini?
Non è una domanda retorica, tutt’altro. Si tratta infatti di un interrogativo che andrebbe posto al centro di una riflessione collettiva da parte di tutta la comunità adulta, ma soprattutto da parte di chi intende occuparsi della crescita dei bambini.
A valle di una vita professionale, spesa con e per i bambini, ho imparato che essi sono per legge titolari di una serie di diritti, tuttavia necessitano dell’intermediazione adulta per poterli esercitare; e quando questo non avviene è perchè sono pensati e sentiti dal mondo adulto come un prolungamento di sé, una proprietà privata.
Una proprietà di chi?
In primis di chi li ha generati, perché il diritto del sangue è ancora alla base della stessa idea di genitorialità. Questa rappresentazione è patrimonio comune della maggioranza degli adulti. Una maggioranza composta da cittadini, il così detto popolo, portatrice di un approccio culturale che ha prodotto affermazioni del tipo “come ti ho fatto ti disfo” e che talvolta produce delitti agghiaccianti come quello di Varese, ma anche da cittadini qualificati, professionisti del settore sanitario, sociale e della giustizia. Professionisti che dovrebbero, per compito istituzionale, operare nell’interesse preminente dei così detti minori di età e quindi partire dai bambini per capire come aiutarli ad esercitare i diritti di cui sono titolari, nel caso specifico quello alla bigenitorialità, senza per questo porli in condizioni di rischiare la vita, fisica e/o psichica che sia.
Se guardiamo ai diritti è vero che, come recita l’art. 1 della Legge 149/2001 “il bambino ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”, ma l’esperienza insegna e la cronaca conferma, che ciò è valido fino a che non mette a rischio la crescita del bambino stesso, talvolta la sua stessa incolumità.
Ma chi decide se esiste questo rischio? E soprattutto, chi è chiamato a decidere, decide in base a quali rappresentazioni del bambino, del suo essere bene comune e non “proprietà di”, e soprattutto in riferimento a quale rappresentazione di cosa sia per il bambino un “rischio”?
Per il mondo della Giustizia nello specifico, il concetto di rischio talvolta viene oscurato dal concetto di reato: se non è stato commesso un reato correlato al bambino perché impedire ad un genitore di stare con il bambino stesso? Dove sta il rischio?
E quando qualcuno, magari chi si occupa della “tutela minori”, evidenzia come i comportamenti di quel genitore possano configurare un probabile o imminente rischio fisico o psichico per il bambino, non è insolito che l’Autorità Giudiziaria ordinaria obbietti che quei preoccupanti comportamenti non sono ancora un reato e che soprattutto evidenziarli significa “avere dei pregiudizi” nei confronti di quel genitore. E nulla è più grave che un atteggiamento “pregiudizievole”…
È vero, il concetto di rischio ha a che fare con il complesso campo della prevenzione e nessuno ha la sfera di cristallo per sapere se ciò che si rischia accadrà… ma forse basarsi solo sui “fatti/reati già accaduti” non è sufficiente per garantire la crescita di bambini e bambine. Solamente ciò che è già accaduto può venir sanzionato, ma chi ne è rimasto in qualche modo “vittima” non ha possibilità di recupero!
Non vado oltre con gli esempi perché credo sia evidente a tutti che esiste un problema per il mondo della Giustizia, ma in genere per tutta la comunità adulta: fintanto che i bambini e le bambine non verranno considerati alla stregua di un bene comune e quindi dei Soggetti di diritto prioritari rispetto agli altri componenti della società, credo che non se ne uscirà, e fatti come quelli che la cronaca, troppo spesso, ci racconta, continueranno ad accadere provocando scandalo e riprovazione immediata da parte di tutti, ma senza poi mutare nulla.
Ciò che dovrebbe cambiare è una profonda convinzione culturale che appartiene a tutta la nostra comunità adulta: i bambini sono di chi li fa e quindi il loro diritto viene considerato dopo, oppure quando va bene, alla pari, di quello dei loro genitori o degli altri adulti della famiglia allargata.
Il così detto “preminente diritto del minore” non esiste, se non negli slogan periodici… non esiste perché non viene praticato dagli adulti più vicini al bambino, ma spesso nemmeno dagli organi che istituzionalmente esistono per garantirlo: troppa paura nelle aule giudiziarie e nei servizi di mettere in pratica questa “preminenza” laddove entra in conflitto con il diritto dell’adulto ad esercitare la sua genitorialità proprietaria… soprattutto se questo diritto è ben rappresentato da agguerriti avvocati che di ricorso in ricorso smuovono i diversi gradi di giudizio e soprattutto la stampa e i mass media.