“Lo sai vero che noi contiamo zero?” mi dice talvolta una collega educatrice, indicandomi con le dita il numero zero.
Spesso mi trovo a riflettere su questa espressione, che a prima vista potrebbe far pensare ad un pensiero pessimistico, quasi disfattista, riferito al nostro lavoro con le persone che affianchiamo in periodi complessi delle loro vite. Ciò a cui si riferisce riguarda la considerazione che, molto spesso, ci troviamo a versare sangue e sudore per mesi, se non addirittura per anni, nel tentativo di trasmettere alle persone che seguiamo indicazioni, consigli, riletture dei loro percorsi, che a noi sembrano chiari e a volte ovvi, ma che quasi sempre non vengono accolti dai diretti interessati.
Il nostro lavoro spesso sembra fatto di parole “gettate al vento”, parole che raramente riescono a piantare qualche seme di cambiamento. Questo genera negli operatori un sentimento di frustrazione ed una sensazione di grande fatica che a lungo andare diventa insostenibile, se non si riesce a intravvedere un nuovo senso, una nuova interpretazione a questo processo.
Se penso ai miei quasi vent’anni di lavoro di assistente sociale, inevitabilmente mi vengono in mente alcune situazioni, molto complesse, che hanno comportato anni ed anni di lavoro, durante i quali ho rischiato di sentirmi in più occasioni sopraffatta da questo sentimento di frustrazione.
E’ nitido in me il ricordo di tutte le volte che, alzando le braccia al cielo, ci siamo guardati in faccia fra colleghi, dicendo che non c’era nulla da fare, che mai il cambiamento sarebbe arrivato.
Il ricorrere ciclico delle dinamiche relazionali, degli avvenimenti e degli errori, che spesso caratterizza i cicli di vita delle persone che seguiamo ci lascia ogni volta sempre più delusi. Con il rischio reale di renderci ogni giorno un po’ più sfiduciati verso la possibilità di un cambiamento, di un’evoluzione in positivo.
Poi quando meno te lo aspetti accade qualcosa, non so se definirlo un miracolo, una svolta, o anche solo un piccolo mutamento che, per quanto minimo, crea uno spazio di possibilità.
Ed allora penso inevitabilmente alla storia di Sara e Marco, che ovviamente sono nomi di fantasia.
Li abbiamo conosciuti che erano bambini, li abbiamo visti crescere e diventare giovanissimi ed inconsapevoli genitori. Abbiamo visto nascere in circostanze drammatiche il loro piccolo bambino, così simile a loro nella sua enorme fragilità.
La loro nascita a “genitori” è avvenuta a seguito di un evento sconvolgente, che ha visto la mamma stare molto male e rischiare la vita. Da quel momento è iniziato un calvario fatto di tribunali, denunce, comunità, famiglie d’origine invischiate e talvolta distruttive, allontanamenti e riavvicinamenti del giovane papà.
Sara dopo essersi ripresa ha imparato a fare la mamma, è cresciuta con il suo bambino; Sara, fatta di mille fragilità e di mille contraddizioni, frutto di un’infanzia passata a sua volta senza madre.
Marco, apparentemente più strutturato di Sara, ma in realtà ancor più debole e fragile di lei, un edificio senza fondamenta, che ad ogni scossa che la vita gli mette davanti sembra sempre venire giù.
E il loro amore, nato sui banchi di scuola, che per tanti anni ha fatto “da stampella” alle loro insicurezze, ma che davanti ad una svolta così importante, la nascita del loro figlio, non ha retto, perché una sola stampella non può reggere due gambe così malandate, che ancora devono imparare a camminare da sole.
E quando il loro amore di ragazzini è stato improvvisamente interrotto da un evento che loro stessi non sono riusciti a comprendere nella sua enorme complessità e nelle sue mille sfaccettature, hanno iniziato a farsi la guerra. Una di quelle guerre in cui chi combatte non ha nemmeno capito contro chi o cosa lo stia facendo. L’unica cosa certa, la posta gioco: il loro bambino, o meglio, la possibilità di essere riconosciuti come genitori, uno più meritevole dell’altro, uno meno colpevole dell’altro, uno più adeguato dell’altro.
In quattro anni non riesco a contare le occasioni in cui entrambi avrebbero potuto mettere fine alla battaglia, eppure ogni volta una mossa falsa, un errore incomprensibile, un’azione senza senso che pregiudicava il cammino fatto fino a quel momento.
Il lavoro con questi due genitori ha messo duramente alla prova un’intera equipe multiprofessionale di operatori. Ci sono stati periodi bui, in cui davvero ci siamo chiesti quale fosse il senso del nostro lavoro e quale futuro si stesse costruendo per quel figlio di genitori “bambini”.
Spesso infatti ci è sembrato di lavorare con due bambini, capaci di far risuonare in noi sentimenti contrapposti, in tante occasioni una forte rabbia, ma in tante altre una grande tenerezza. Quella tenerezza che ti permette di scusare, di trovare un alibi, una giustificazione di fronte ad agiti incomprensibili e distruttivi.
Dopo anni di tentativi inutili di far passare un messaggio sulla necessità di cambiare direzione e di mettere da parte i rancori e gli errori di entrambi per il bene del loro bambino, la vita ha messo sulla strada di Marco un altro evento doloroso, che ha nuovamente scosso come un terremoto l’intero sistema famigliare.
Ed ecco allora il miracolo, la svolta inspiegabile. Sara e Marco, che all’epoca si parlavano solo attraverso il servizio o gli avvocati, si sono fermati e si sono guardati negli occhi.
Senza dire nulla a noi operatori, alle loro famiglie, ai loro compagni, si sono dati appuntamento, hanno scelto che era arrivato il momento di riavvolgere il nastro e ripercorrere la loro relazione da dove si era interrotta. Due ore fatte di pianti, di scuse, di ammissioni, che hanno fatto emergere il dolore che li aveva divisi e che li aveva portati a combattere uno contro l’altro.
Inutile dire quante volte, negli anni, abbiamo tentato di realizzare questo passaggio, a nulla è servita la mia mediazione, il lavoro dell’educatrice o gli innumerevoli colloqui degli psicologi che hanno trattato la situazione.
Ce lo sono venuti a raccontare Sara e Marco. Hanno preteso di vederci per dirci che era tutto risolto, che avevano messo il punto su tutto ciò che era rimasto sospeso fra loro, tutto era stato chiarito.
Vederli seduti davanti a noi, insieme, sentirli dire con serenità che entrambi avevano fatto tanti, troppi errori anche a danno dell’altro, ma che quello era il momento di ricominciare è stato sconvolgente.
Da circa due mesi non sentiamo più Sara e Marco per fare il calendario di visita del loro figlio.
Si accordano fra loro, nella maniera più ragionevole possibile, aiutandosi e sostituendosi in caso di bisogno. Li sentiamo al telefono per sapere come stanno, entrambi stanno cambiando casa e si stanno costruendo una vita, non sono tornati ad essere una coppia.
Hanno molti progetti, alcuni dei quali francamente ci sembrano un po’ strampalati… ma non è questo che conta. Ciò che conta è che loro stessi, dopo anni in cui hanno usato come arma i difetti dell’altro, quando se li raccontano riescono a riderci sopra e a dirsi “secondo me stai facendo una cavolata, ma tu sei fatto così, ti conosco bene, quindi ti accetto per come sei”.
E’ stato in occasione dell’ultimo colloquio che la mia collega, dopo esserci guardate negli occhi con lo sguardo attonito, mi ha detto la frase “Lo sai vero che noi contiamo zero?”.
Cosa è successo per far accadere il miracolo, ci siamo chieste. Quanto abbiamo lavorato per arrivare a questo momento senza riuscirvi. E poi improvvisamente la vita ha fatto il suo corso mettendoli alla prova e qualcosa è scattato.
Quel qualcosa che abbiamo cercato invano per anni di far accadere.
La rapidità con cui è avvenuto nel momento più drammatico, senza spiegazioni, così improvvisamente da far pensare che non si sia trattato dell’esito di un percorso, quanto del frutto di una congiunzione astrale, così… da zero a cento in un secondo.
Marilyn Ferguson scriveva che ognuno di noi è il custode di un cancello che può essere aperto solo dall’interno, che nessuno di noi dunque può aprire il cancello di un altro, né con la ragione né con il sentimento.
E’ un po’ quello che avvenuto con Sara e Marco. Hanno deciso di aprire il loro cancello proprio lì ed in quel momento. Quindi cosa abbiamo fatto noi operatori in questi anni di lavoro? Viene da chiedersi… avremo contribuito a questa apertura in un qualche modo?
A questa domanda non so rispondere di preciso, sono sicura però che vicino a quel cancello io e la mia collega ci siamo state per lungo tempo, ci siamo rimaste anche durante i temporali, assistendo a eventi spiacevoli e non dormendo la notte per la preoccupazione.
Nel caso di Marco e Sara, nei momenti più critici avremmo anche potuto prendere decisioni diverse per quel bambino, che era nel mezzo di una conflittualità tremenda, con due genitori che in qualche occasione hanno dato il peggio di sé stessi. Ma non l’abbiamo fatto.
Mi piace pensare al nostro lavoro non come l’accompagnamento delle persone al cambiamento, inteso come la possibilità di favorirlo per forza in un qualche modo, ma come una vicinanza, una presenza accanto alle persone, una relazione che spesso vede alternarsi momenti di fiducia a momenti di sconforto, momenti di gioia a momenti di pura rabbia.
La cosa che caratterizza principalmente questa relazione è l’attesa dell’attimo in cui quella persona potrebbe decidere che è il momento di dare una svolta, di aprire il suo cancello. Non sempre questo avviene, anzi poche volte. Quando questo non accade la vita continua a scorrere nell’eterno riperpetuarsi di dinamiche disfunzionali e dolorose per le persone coinvolte.
Ma altre volte il miracolo accade, come nel caso di questi due giovani genitori e quando avviene è stupefacente.
Altrettanto significativo e straordinario è il fatto che entrambi abbiano sentito il bisogno di condividerlo con noi operatori, di raccontarci il momento in cui hanno deciso di mettere quella chiave nella toppa e di girarla.
In questa condivisione ci siamo sentite “riconosciute” come compagne di viaggio di Sara e Marco.
Ecco allora il senso. Che è, sempre e comunque, nella relazione con le persone che seguiamo che, tra alti e bassi, soddisfazioni e pianti, gioia e tristezza, è pur sempre potentissima.
1 commenti On “Lo sai vero che noi contiamo zero?”
Grazie per aver condiviso la vostra fatica.