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La mortificazione della cultura del “care”

Una riflessione a margine della vicenda di Bibbiano.

La vicenda di Bibbiano continua a contenere, a mio parere, aspetti non spiegati a sufficienza nonostante le analisi sempre più critiche che vengono sviluppate man mano che le vicende processuali, nella loro inconsistenza e goffaggine accusatoria, e le prime sentenze – Foti docet – appaiono alla visibilità pubblica.

Come può accadere che si passi, nel breve volgere di pochi anni, da una rappresentazione demoniaco-truffaldina di servizi, amministrazioni, operatori, ad una dimostrazione pubblica di serietà e efficacia di un sistema, immagine della quale era accreditata in precedenza? E, anche ammettendo che l’esito finale ribalti le narrazioni di partenza – fatto tutt’altro che scontato –, il tempo e le vicende trascorse dalle persone – operatori e pazienti in primis – che valore hanno? Li derubricheremo a semplici accidenti della storia?

Può bastare il detto junghiano: ‘Non vediamo le cose come sono ma vediamo le cose come siamo” per comprendere ciò che sta accadendo? Un gigantesco e collettivo misunderstunding, un semplice errore…mi pare difficile limitarsi a questo. Credo sia necessario, e lo sarà per un bel po’ di tempo, trarre da Bibbiano una lezione a proposito della civiltà nella quale viviamo.

Partecipando a questa elaborazione collettiva aggiungo al dibattito un aspetto della vicenda stessa che mi è parso poco presente e sul quale vorrei richiamare l’attenzione, ovvero che l’epicentro della vicenda riguardi l’Emilia Romagna come cuore di una cultura dei servizi che persegue ancora, con la residua efficienza e convinzione della quale è capace, una logica ispirata, in sintesi, al care. Una cultura delle relazioni che fa parte della storia della sinistra perché ‘orizzontale’, di comunità, espressiva di valori che le sono storicamente propri: dal solidarismo all’egualitarismo all’universalismo.

Semplificando, certo, mi pare di poter individuare qui, all’interno dei servizi sociali, sanitari e in parte anche educativi, una logica che fa dei soggetti umani degli attori micro e macro sociali e che mette al centro una prospettiva interdisciplinare che si sforza di integrare saperi e organizzazioni – Asl, Comuni, ETS, organizzazioni informali, etc – in una comune cultura di comunità autoecocurante/educante.

So bene che siamo lontani dall’ideale anche qui in Emilia e che non ci stiamo avvicinando a questo orizzonte, anzi, e ne accennerò meglio fra poco, orizzonte che tuttavia mantiene, soprattutto in alcune realtà, una forza attrattiva verso cui tendere.

Questa cultura dei servizi è differente da una cultura tecnicistico-scientifica, molto orientata sulla competenza professionale, più attenta al bios che al relazionale, avulsa dal contesto sociale nella quale opera, che si colloca all’interno di una visione modernista di ‘cure’: verticale, oggettivante, ad alto investimento tecnologico, etc.

E’ ben evidente, vorrei chiarire, che questa seconda cultura è vieppiù presente anche in Emilia e che, aggiungo, essa non è certo da demonizzare, ma certo non da accogliere sic et simpliciter come un’alternativa salvifica al difficile presente.

Di fatto la vicenda di Bibbiano ha reso molto più diffidenti e cauti verso quelle pratiche operative che si ispirano alla prima cultura. Le pratiche di reti sociali, di una clinica psicologica e psicoterapeutica relazionale e attenta al contesto familiare e sociale, a prospettive che integrano l’educativo con il sanitario anziché scinderlo. Il mondo psicologico, dal quale provengo, è spaccato in due, a mio parere, su questa faglia: piccoli ortopedici che provano ad utilizzare il loro sapere per correggere difettualità riadattando i soggetti al mondo così com’è o accompagnatori rispettosi di soggettualità e relazionalità complesse, magari contorte o sgradevoli? Bambini e adolescenti, famiglie, che mettono in difficoltà se stesse non meno del sistema – scolastico, sanitario, sociale – nel quale vivono sono gli interlocutori di questi due tipi di attori sociali. La vicenda di Bibbiano ha di fatto attaccato un luogo e dei servizi più rappresentativi della seconda cultura, che pur non disdegnando affatto alcune qualità della prima – la competenza psicoterapeutica specialistica richiesta al gruppo ‘Hansel e Gretel’ ne è un esempio – la inserisce programmaticamente e di fatto nella rete di senso della seconda.

Non so se questo era un intento di chi ha sollevato lo scandalo di Bibbiano a suo tempo, constato che l’esito è stato questo. La cultura dell’affido, che si basa sul fatto che una comunità, delle famiglie, delle persone, si rendano disponibili ad una funzione di aiuto non professionale e che i servizi si avvalgano di questa disponibilità avendo contribuito a co-costruirla e a manutenerla, ha subito dalla vicenda di Bibbiano un duro attacco. La possibilità di pensare alla collaborazione con organizzazioni, anche del terzo settore, che lavorano in rete con il pubblico, che un’amministrazione comunale coordini, faciliti, rappresenti quella popolazione che fa comunità è stata messa sotto processo e già mediaticamente discreditata e vilipesa, se non ancora giuridicamente condannata. Che l’alternativa a questa cultura sia quindi quella dell’ospedale, del mondo del cure, delle strutture residenziali, degli SPDC sempre più pieni di minori, del formalismo economico-appaltistico, vien da sé.

Ora appare chiaro anche ad uno sguardo poco informato che la cultura del cure ha oggi dietro di sé una potenza economica e politica sempre più ingente, ben rappresentata in parlamento e financo nel governo che sta approfittando e sostenendo l’indebolimento della capacità del sistema pubblico di governare il welfare, più che di erogare prestazioni in esso, come riduttivamente si sostiene. Alcune delle forze politiche che oggi sono al governo nazionale erano all’epoca in procinto di andare al governo regionale e la logica che viene perseguita, anche esplicitamente e programmaticamente in alcuni contesti, appare ispirata ad un liberismo dei servizi che si rafforza man mano che si indebolisce la parte pubblica. Alcune regioni, Lombardia e Lazio sono forse le più note, fanno di questa logica un modello. Bibbiano rappresentava l’opposto e chi stava per governare quei luoghi forse stava preparando anche così il terreno? E’ quantomeno un’ipotesi plausibile che voglio qui rappresentare. L’offensiva mediatica non a caso è calata drasticamente dopo le elezioni regionali del gennaio 2020 dove la destra fu sconfitta, sorprendentemente, stando alle previsioni di sei mesi prima quando l’inchiesta giudiziaria su Bibbiano è, appunto, partita.

Bibbiano, non da solo certo, ma emblematicamente, ha rappresentato e ci auguriamo possa rimanere a rappresentare un’altra cultura, assai meno penetrabile alle multinazionali della salute che sul non governo di essa contano e prosperano.

Rimane da capire come la nostra regione intenderà tener conto di queste due culture nella futura organizzazione dei servizi di welfare. Stante la crisi che comunque questi servizi stanno vivendo, sia che si tratti di servizi sociali che sanitari che educativi, per qualsiasi target di età e configurazione relazionale, è evidente che ci sia bisogno di andare, al di là di Bibbiano, oltre la difesa di un ‘modello emiliano’ per riformulare un pensiero e un progetto che collochi, se dovessi dirlo con una espressione sintetica, la tecnoscienza al servizio della consistenza dei soggetti e delle loro relazionalità sociali.

Proviamo allora ad essere più espliciti e propositivi utilizzando anche ciò che l’esperienza di questi tempi non facili c’insegna: non credo si tratti di difendere una cultura contro un’altra. Il nemico, l’avversario, non è mai solo fuori, e aggiungerei, per fortuna.

Si tratta di integrare competenze e funzioni specifiche, anche specialistiche, e, perché no?, eccellenze ove esistano e si possano includere, all’interno di una logica politica nuova. Che professionisti, organizzazioni, gruppi anche politicamente rilevanti, si attivino per partecipare alla salute e alla cura, alla crescita e all’educazione dei cittadini, non solo non è un dato negativo ma è anzi espressione di una vitalità che è anche economica e imprenditoriale nonché coerente con le norme costituzionali, non ultime quelle che fanno riferimento al concetto di ‘sussidiarietà’ nel rapporto fra cittadini e parte pubblica. Il sistema pubblico dei servizi è a volte, e dico una cosa forte che proverò sinteticamente ad argomentare, un ostacolo allo sviluppo di iniziative di qualità che un territorio, in senso ampio, può produrre. Le due funzioni del ‘pubblico’: quella di erogatore di servizi e quella di governo del sistema, qualora coincidano nello stesso soggetto possono creare un inedito quanto potente conflitto d’interessi. Se devo scegliere se dare risorse all’affiliato della mia organizzazione o fuori di essa a chi le darò? La domanda è tanto retorica quanto attuale. Il perseguire un rapporto con i professionisti, le organizzazioni – profit e noprofit – ispirata ad una logica di complementarietà economicistica con ciò che ho ‘in house’ non ha nulla a che vedere con il perseguimento della qualità della cura e dell’educazione. Ma questo cambio di prospettiva che accentua un livello e ricolloca l’altro – quello operativo – in una forma differente, richiede una statura politica e non una funzione amministrativa, anche sul piano locale.

Ciò che si è enormemente indebolito, a mio parere, nel sistema dei servizi non è tanto l’entità delle risorse quanto la capacità di governo. In fondo è ciò che accade anche a livelli macro. Le multinazionali dell’informatica e della tecnologia, i Google e i Musk per fare due nomi, sono governati dagli stati o li governano? Anche nel mondo della cura e dell’educazione, ambiti di non minore rilevanza dell’informatica o dell’automotive, accade lo stesso fenomeno di impotenza della politica a governare il mondo.

Una politica descritta, troppo spesso giustamente, come corrotta e incapace di uno sguardo ‘alto’ che però essa deve recuperare perché affidarsi altrimenti all’autoregolazione del mercato e alla capacità di autoorganizzazione dei soggetti appare come molto rischioso, dapprima per gli ultimi e i penultimi, e poi, e oramai ci siamo già ampiamente, per i cosiddetti ceti medi e poi per i pochi privilegiati. Se non è un compito della sinistra questo…

Ovviamente Bibbiano è solo un frammento di una questione ben più ampia ma forse alcune contingenze locali si sono prestate, anche per le ragioni che ho sommariamente esposto, per farne un caso di rilevanza nazionale, e non solo. D’altra parte non sarebbe la prima volta che vicende del reggiano hanno costituito simboli di questioni culturali e politiche di dimensioni ben maggiori.


Fabio Vanni è psicologo e psicoterapeuta, presidente ‘Progetto Sum ETS’ e ‘Rete Psicoterapia Sociale’, già dirigente del SSR, prof a contratto UNIPR.

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